Chiudete gli occhi e andate indietro con la memoria, tornate a una decina di anni fa, e ancora più indietro. Tornate agli anni ’80 ed entrate a una riunione di partito. Oltrepassate la porta, guardatevi in giro, trovate un posto libero e sedetevi. Ora immaginate la sala, i relatori al tavolo, i partecipanti che prima vociferano rumorosi, poi diventano silenti. C’è davvero molta gente. Immaginate sia gli uni (i relatori), sia gli altri (il pubblico), che prima di arrivare a questo appuntamento, si son preparati a modo: doccia, capelli, barba per gli uomini, trucco per le signore. Un bel vestito adatto all’occasione e quel tempo giusto per predisporsi a incontrare altre persone interessate allo stesso argomento. Immaginate anche quel relatore con la cravatta blu notte, seduto al centro, che per parlare di fronte a quel pubblico si è preparato da giorni, così come l’ha fatto quel signore in terz’ultima fila che per non fare brutte figure di fronte a tutti ha scritto su un foglio una scaletta per dare il proprio contributo.

Tenete ancora gli occhi chiusi e immaginate che per intervenire c’è chi alza la mano. Lo vedete? Avvertite quel momento imbarazzante di chi non è abituato a parlare di fronte a tutti? Intervenire pubblicamente era andare oltre la vergogna di non essere all’altezza del contributo, e superare il giudizio dei presenti. Chi interveniva era quello bravo, quello preparato, quello coraggioso, quello che aveva studiato. Erano i dibattiti politici di una volta, dove parlavano in pochi, molti ascoltavano e qualcuno dormiva. Le mani stavano appoggiate ai braccioli delle sedie, incrociate, o giochicchiavano tra loro. Non c’erano tablet o smartphone a sviare l’attenzione. In tasca si trovavano caramelle, quelle per prepararsi prima di aprire bocca.

Ora aprite gli occhi. Anni duemila (anno 2018 nel momento in cui scrivo). La riunione di partito si fa in diretta streaming o direttamente sui social. I relatori al pari del pubblico, scrivono post. Le mani alzate di chi interviene dal pubblico sono i like e se il “relatore digitale” ti risponde o ti condivide (re-post, re-tweet) è il tuo premio e lo dici al mondo intero con orgoglio, un po’ come quando vai a un concerto e te ne vieni via con l’autografo del tuo idolo. Si interviene vestiti in qualsiasi modo, anche in mutande, anche puzzolenti. Si interviene protetti da una scatoletta sottilissima e leggera (o da un pc in altri casi) e in un momento qualsiasi della propria giornata: mentre si mangia, durante l’intervallo di una partita di calcio, nel bel mezzo della lite con il marito o i figli, dopo aver ricevuto dal commercialista l’importo delle tasse da pagare. Si commenta anche dal bagno. Si dialoga su qualsiasi qualcosa e in qualsiasi momento, spesso più in preda a un istinto piuttosto che a una vera e ponderata intenzione e senza considerare il giusto peso delle parole che saranno lette sia dai dialoganti (che poi le commenteranno) sia dai tanti “utenti passivi” che in silenzio ci leggono.

La tecnologia che, si dovrebbe ricordare, è al servizio dell’uomo e non il suo contrario, ci porta ad interagire anche con chi non parla mai, utente passivo e silente, ma è vivo e influenzabile. E’ un bar affollatissimo questo. Tutti ascoltano tutto, tutti intervengono su tutto, tutti sono relatori e pubblico allo stesso tempo. Nessuna regola, nessun filtro educazionale, nessuna vergogna a esternare il non sapere, ignorare ed essere ignoranti è diventato qualcosa di cui vantarsi. C’è un assente, che nella società digitale sarebbe utilissimo, ed è quello sguardo giudicatorio del pubblico di quando tu, in piedi di fronte a tutti dicevi qualcosa di stonato (per contenuto, per informazione complessiva mancante, e anche per verbi sbagliati) e su quella stonatura detta a gran voce avevi gli occhi addosso a ricordarti che la volta successiva dovevi andare più preparato, o che era necessario chiedere scusa per non aver dato il meglio. Ora c’è la claque virtuale. Quegli occhi erano a tutela di tutti, erano il nostro salvavita che ci garantivano fiducia, integrità, valore. Al giorno d’oggi su questo, intendo sul dilagare delle mezze verità, facciamo tanta e troppa ironia, sorvoliamo, passiamo oltre.

C’è un motivo quindi per cui, oggi, più di esperti di comunicazione politica servono psicologi, e anche parecchio bravi, o almeno che i primi (i comunicatori) prendano a piene mani dalla psicologia per orientarsi in questo fiume della parola e delle emozioni disperse in acqua melmosa.

La questione centrale non è più solamente l’anteporre la verità al falso, la qualità della parola alla manomissione che ne viene fatta quotidianamente, ma come far a riportare il singolo individuo alla presa di coscienza di cosa sta avvenendo, alla importanza di far comprendere che la strada della comunicazione è piena di buchi e mancano pezzi come ad un bel quadro da restaurare, quando perde colore e dignità.

La comunicazione politica oggi, come quella pubblicitaria del resto, ha una nuova grammatica ed un’enorme responsabilità, soprattutto oggi: quella di diffondere il vero, di solleticare costantemente quel fruitore che si nutre del falso e del falsato non riconoscendolo come tale, ma ha anche il dovere di occuparsi della sfera emozionale dell’essere umano, di quel risentimento collettivo, quel tifo da stadio, l’invidia e la rabbia che sta inquinando e consumando non solo il singolo, ma la società intera.

Carl Gustav Jung diceva che, se si prendessero cento persone anche tra le più intelligenti nel mondo e le si mettessero insieme, ne verrebbe fuori una plebaglia idiota. “Se fossero in diecimila, poi, avrebbero l’intelligenza collettiva di un coccodrillo”. Nel suo testo Parla Jung, 1977, raccomandava di notare come ad un ricevimento, quanta più gente fosse invitata, tanto più stupide divengono le conversazioni. Nella folla – sosteneva Jung – le caratteristiche comuni si moltiplicano, si dilatano, e diventano l’aspetto dominante del tutto. Il risultato che ne deriva “è che una nazione di molti milioni di individui non è neppure umana. E’ una lucertola, un coccodrillo, un lupo. I suoi uomini politici non possono avere una moralità più elevata della moralità massificata e animalesca della nazione, anche se, negli Stati democratici, questo o quel singolo uomo politico può sforzarsi di comportarsi un po’ meglio”. Jung, che fu per il controspionaggio statunitense anche un agente segreto –  il n. 488 per l’Oss/Office of Strategic Service – una sorta di CIA dell’epoca della seconda guerra mondiale, sosteneva che era necessario “appellarsi al lato migliore dei tedeschi, all’idealismo, all’amore per la verità, alla loro decenza. E’ importante che colmiate il buco della loro inferiorità morale, è molto più efficace della propaganda distruttiva”.

Tutti vogliono insegnare a tutti cosa sia bene fare, pontificando e predicando soluzioni spesso vacue, tralasciando che il miglioramento comincia da sé stessi. Lo sapevano senza dubbio alcuni antichi saggi di cui dovremmo riprendere la lettura serale come una tisana che si prende prima di addormentarsi. “Il saggio non fa nulla, eppure cambia il mondo” (Lao Tzu), “non il cielo sotto cui vivi, ma l’animo dentro di te che devi cambiare”, (Seneca).

Ma è quell’animo che pare essere cambiato da una decina d’anni o forse più. Se da un lato chi si occupa di politica ha il dovere morale, etico e professionale di usare la parola con la responsabilità di chi sa o dovrebbe sapere che quel che dice muove le masse – vale per le riunioni dei circoli quanto e ancor di più se parliamo di social media – dall’altra è evidente che non è più sufficiente. La frustrazione generalizzata e l’insofferenza verso la cultura e il sapere fa sì che non è più bastante produrre contenuti seri e veri perché le “anime fragili”, ossia i fruitori della parola, son pieni di rabbia e di fiducia tradita. Una società che evidenzia il peggio delle persone e che al momento attuale pare non abbia argini.

Chi si guarda indietro con fare nostalgico e dice “era meglio una volta” vuol sfuggire dalla realtà attuale che è fatta sì di politica e politici, ma soprattutto di una collettività ripiegata su se stessa, risentita e depressa e senza punti di riferimento e leader politico spirituali da prendere ad esempio. E quando a un depresso, tentando di tranquillizzarlo, gli dici che andrà meglio, e domani ci sarà il sole, non solo non ti crede, ma neppure ti ascolta.

Ecco perché non è più solo una questione di comunicazione, ma anche e, forse, soprattutto di psicologia. Se ognuno di noi fosse attento e vigile al proprio sentire interno, ai propri moti emozionali, se ognuno di noi osservasse davvero cosa si muove dentro prima di esternalo, ci sarebbero ottime possibilità di migliorare la società in cui abitiamo. E per società intendo tutta, senza distinzione alcuna tra reale e virtuale. Perché odiare è sempre la scelta più facile è vero, ma amare il prossimo è quella più soddisfacente. Odio/amore: in politica non dovrebbe essere questa la dicotomia. In politica, quella di alto profilo ed al servizio del cittadino, non può avere divisioni rigide e di polo così opposto, altrimenti non è politica, è sport. 

Ma ora facciamo un passo indietro e andiamo al millennio precedente, dove la carta regnava sovrana e dove la comunicazione politica di una campagna elettorale si giocava tra piazze, circoli e tipografie. Manifesti, locandine, “santini” elettorali, telefonate e sms quando andava bene. Le agenzie di comunicazione per avere quel fatidico “visto” alla messa in stampa aspettavano che il manifesto fosse visionato oltre che dal candidato e dal segretario di partito, anche dalla moglie e pure dal vicino di casa del politico di turno. Aspettavi anche una settimana intera prima di mandare il lavoro alle macchine stampatrici e durante quel tempo si spostavano virgole, accenti, loghi e schiarivi le occhiaie. L’uso di Photoshop era più parsimonioso nonostante l’ego del politico al potere fosse, ed è, sempre imperante. Si impiegavano settimane per decidere maiuscole e minuscole, grassetti e colori. Per convincere i politici che la font proposta era quella giusta sudavi le classiche sette camicie. Che bei tempi erano. A ripensarci pare passato un secolo. I tempi in cui tra lo stilare il comunicato stampa e mandarlo ai giornali passavano giorni, al contrario di oggi, dove cinguettare ogni ora, senza ritmo, senza strategia, senza riflettere è l’uso comune. Il tempo dove il comunicare, viene prima del contenuto da condividere.

Umberto Eco, oltre alla sua celebre dichiarazione “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli” sosteneva anche che la perdita della calligrafica è una tragedia. Quel movimento sinuoso che era ed è ancora lo scrivere, quello spostare la penna per comporre la parola, rende la parola stessa non solo diversa l’una dall’altra ma ne arricchisce il valore.

Oggi componiamo parole diverse digitando tasti tutti uguali, lo facciamo di fretta in assenza di quella percezione di diversità che mortifica il nostro impianto sensoriale. Per questo un argine alla comunicazione frammentata e accelerata attuale potrebbe essere – per tutti – il ritorno allo scrivere su carta, riassaporando quell’arte dei calligrafi di un tempo, la cura, la lentezza.

Ciò detto, immaginate se i SMM (social media manager) dei politici dovessero avere l’ok su ogni tweet prima di pubblicarlo? E’ anche vero che per un Toninelli o un Renzi (a caso) aspettare un ok potrebbe essere la salvezza, ma quel tempo che stava tra la penna, l’inchiostro e l’imprimitura sul foglio del contenuto faceva davvero la differenza? O siamo antropologicamente cambiati noi? Rallentare il ritmo, come si fa in alcuni punti chiave di uno spartito musicale, potrebbe arginare questa bulimia di parole? Se la risposta è sì, questo è compito di ognuno di noi, del singolo.

Nel 2005, Derrick de Kerckhove scriveva: “Siamo frantumati – ridotti a pezzi, bits – dalla digitalizzazione”. Era vero in quegli anni e, seppure non siano passati secoli, pare che quei pezzetti siano divenuti ancor più piccoli. Siamo frammenti che viaggiano come schegge impazzite. Chi ha un passato analogico forse ha, a mio parere, qualche chance in più per decifrare, riconoscere e arginare meglio questo disagio, e dovrebbe assumersi il peso dell’aiutare chi non vede oltre il proprio naso. Parlando, ascoltando, sollecitando il disagio del pensare, instillando il dubbio in coloro che leggono e nella tempesta della informazione non riconosco più il vero dal falso, il vero dal falsato.

De Kerckhove sostiene l’incoraggiamento alla scrittura a mano, e la lettura su carta piuttosto che su schermo. “E’ una garanzia che sia realmente sostenuta la libertà di pensiero. Il libro su carta è l’unico posto dove la parola si ferma e dove l’occhio del lettore la controlla completamente. Invece, sullo schermo, il lettore è prigioniero non solo da fascino della luce dello schermo, ma anche dalla voglia d’interagire. Colui che legge sullo schermo non è solo un lettore, è anche scrittore, editore e comunicatore. Io lo chiamerei screttore”.

Se allo screttore fai notare che quella news pubblicata sul suo profilo facebook è falsa, si offende. E allora, per evitare di stizzirlo gli chiedi: “ma hai verificato? Guarda che è una fake-news”, e lui, non curante che 2+2 dovrebbe fare 4, ti dice che non importa, vera o falsa lui la commenta quella notizia, e si diverte, e ci ricama sopra, e persevera ore e giorni. A lui e i suoi amici, ovviamente. A lui e al suo bar che stringe tra le mani, la smentita non procura nessun effetto. La puoi quasi sentire la leggera alzata di spalle, quel “e allora?”, quel tentativo almeno di mettere il dubbio, che neppure li tocca. In questi casi è bene osservare se lo screttore è il classico credulone o un mistificatore. Tutti ne conosciamo almeno uno e tutti noi, se vogliamo, abbiamo sotto gli occhi nei nostri profili social quel che può essere accaduto nel 2016: alla Brexit e alle elezioni di Trump.

Il problema pare essere la crisi della verità e il trionfo della post-verità che amo definire, senza tanti giri di parola, menzogna. L’assenza di intermediazione di professionisti dell’informazione fa si che la politica dialoghi direttamente e senza filtri con la collettività. Fa sì che sia più importante ciò che proviamo di quel che realmente è.

Il pensiero critico è stato smarrito a discapito delle storielle, della propaganda, delle omissioni. Se c’è un limite a tutto – e se non c’è i limiti andrebbero messi – l’abbiamo ampiamente superato. La difficoltà di fare chiarezza dentro e fuori di noi non è più un qualcosa che riguarda solo la politica, ma anche l’educazione, la cultura, la società tutta.

Carlo Freccero diceva, “nel dubbio togli”. Stefano Sappino scriveva: “essere semplici significa abbandonare tutte le scuse utili. Parecchio difficile, ed estremamente sgradito”. La verità, che è sempre semplice per suo dna, è diventata scomoda.

Aderire alla verità significa aderire alla fatica del sapere e al coraggio di ascoltare anche qualcosa di diverso da ciò che ci aspettavamo. Per aderire alla verità è necessaria una struttura interna a noi molto salda, soprattutto in questo momento storico in cui, come direbbe Zygmunt Bauman, siamo passati dal solido al liquido. La parola nel dibattito politico ha perso senso, e l’ha persa di pari passo la verità, tanto in alto (i politici) quanto in basso (i cittadini), tanto a destra quanto a sinistra. Per dire la verità, è necessario essere capaci di sapere cos’è la verità e di sapere cos’è la bugia, e lo è prima di tutto dentro se stessi. Voi capite cha abbiamo politici che non possono aderire a questo, per il semplice fatto che ammetterlo significherebbe prendere coscienza di non essere adatti al ruolo che ricoprono ed è più forte – direi prevale – la protezione del potere conquistato che la messa in discussione del vero per non perdere consenso verso i propri elettori, per quella considerazione verso gli altri che il potere politico va cercando e crea dipendenza interiore, dimenticando il principio dei principi che per fare, bisogna essere.

Perdendo credibilità quindi, nel tentativo disperato di essere credibili. Svicolando dalla chiarezza. Creando spaccature alle fondamenta della società e relegandola a una condizione di stato di crisi permanente. Perché esprimere un’opinione o dire la verità non è per nulla la medesima stessa cosa.

John F. Kennedy nel 1962 diceva: “ci piace la comodità delle opinioni, senza il disagio del pensiero”. In quel pensiero ha residenza sia la ragione sia il sentimento: la ragione cerca il senso delle cose, il sentimento, l’emozione, le colora.

Aldo Carotenuto, analista junghiano di fama internazionale, diceva che la forza del sentimento è la forza della psicoanalisi, per questo motivo insisto sul compito da cui non si può esimere la comunicazione politica: il tenere nella stessa considerazione testa (ragione) e cuore (sentimento), orientando il secondo come si fa con i bambini che provano rabbia o amore senza mediazione alcuna, idealizzando o demonizzando quel flusso di informazioni costanti senza più filtri mettendo in discussione politici, media, intellettuali, medici, economisti, etc. disconoscendoli, su basi nulle.

“La fiducia è un sentimento evoluzionisticamente innovativo. Esige la maturità affettiva necessaria per superare arroccamenti narcisisti, angosce paranoidi, disfattismi depressivi; presuppone un affidabile esame della realtà e impone all’Io atteggiamenti coerenti, gravando l’uomo di responsabilità.  [… ] Fidarsi implica certezza non solo di contenuti, ma soprattutto delle persone che li esprimono; essendo un’esperienza primariamente affettiva e non solo cognitiva, antepone spesso la fede del messaggero alla credibilità del messaggio. Presuppone l’affidabilità di altri, ma richiede anche la propria: impone capacità di essere credibili nelle promesse, di tenere fede alla parola data, di essere onorevoli nella coerenza fra pensato, detto e agito. Introduce stabilità nelle relazioni e coesione nella collettività, ma a tutti i membri di un collettivo richiede fedeltà e lealtà: non sono ammesse deroghe per il solo mutare delle contingenze, non sono contemplate defezioni per il solo passare del tempo. Venire a meno a un patto tra entità sociali e, soprattutto, all’adesione tra soggetti affettivi mina alla base le relazioni di fiducia; non importa in quale modo, per quale ragione o, peggio, con quale pretesto: la fiducia è categoria categorica”, scrive così lo psicanalista junghiano Claudio Widmann nel suo breve trattato sulla fiducia, mettendo in poche righe che riporto volutamente per intero, spunti e riflessioni per chi, occupandosi di comunicazione, dovrebbe tenere presente.

Per conquistare la fiducia serve tempo, dedizione, rispetto ed etica, per perderla ci vuole pochissimo: un’informazione distorta, scuse non date, analisi non fatte, nebulosità dei contenuti a discapito della chiarezza. Se a un bambino non spieghi perché non sei riuscito ad andarlo a prendere da scuola, e lo lasci nel parcheggio al buio da solo quando tutti gli altri sono stati recuperati dai genitori, crescerà molto probabilmente con la ferita dell’abbandono e della fiducia mancata. Se a quel figlio il genitore spiega il perché del ritardo, scusandosi e facendo immediata chiarezza, e ascoltando le sensazioni di smarrimento che il piccolo ha sentito dentro di lui, il fatto non solo si placa. ma diventa momento di arricchimento emotivo di una angoscia che, se capita e digerita, nobilita la persona.

Siamo retrocessi a quel livello di sentimento collettivo – a quel bambino che è il cittadino che non si è voluto ascoltare – dove è necessario dar conto di ogni parola scritta, aprendosi al dialogo, incuriosendo e dove l’effetto sorpresa può essere stimolante per la pigrizia intellettuale che regna sovrana. Un po’ come si fa con i bambini quando regali loro giocattoli tutti uguali e questi smettono di giocare, o giocano ma esenti di motivazione evolutiva e privi di passione e desiderio.

Ricordo con un sorriso quando presentai un comunicato stampa al presidente di associazione cooperativa – schieramento di sinistra – e lui me lo ritornò con la nota “è troppo muscolare”, che indicava un testo scritto con parole fin troppo aderenti ai fatti: “si dice troppo il vero, per quello che è” mi precisò. Risposi con una domanda alla quale non ebbi risposta: “E il problema dov’è? Non è questo che chi ci legge ha il dovere di sapere?” Leggendo quella nota stampa, invero, non c’era possibilità di svicolare rispetto ai fatti accaduti, lo capii nel tempo che questo alla politica non piace. Ma se l’addetto stampa non è un semplice passa carte, questo dovrebbe essere il compito a cui è stato chiamato: scrivere con un linguaggio dove non sia necessario avere l’interprete, dove non si gioca a nascondino con le parole e dove si desidera fortemente farsi comprendere e condanna l’approssimazione.

Già nel 1981 Natalia Ginzburg pubblicava su La Stampa l’articolo dal titolo “Parole nella nebbia” esprimendo quasi quarant’anni fa quanto il linguaggio soffriva di chiarezza, ossia di quanto le parole erano avviluppate volontariamente nella nebbia per non farsi capire.

Al giorno d’oggi oltre alla nebbia, il linguaggio è infangato, avvilito, denutrito. “Quello che ti fa gelare, nei manoscritti pieni di nebbia, è il senso che non sono stati scritti per nessuno. Il prossimo, al di là della nebbia, non esiste come essere vivente; esiste al suo posto un’entità astratta, di cui si vuole ottenere l’assenso; il fine di chi scrive non è di raggiungere il pensiero di un altro essere, di un suo simile; il fine è dare della nebbia, e ottenere, con la nebbia, rispetto e venerazione”. La Ginzburg faceva due eccezioni, il corsivista dell’Unità Fortebraccio e il Presidente della Repubblica Sandro Pertini.

A Fortebraccio “gli si riconosceva la rara qualità di conciliare una scrittura elegante con uno stile sorvegliato e un lessico più che mai appropriato, con una chiarezza espositiva quasi didascalica. Fortebraccio aveva ben presente che scriveva sul giornale dei lavoratori, nel paese che stava vivendo il boom economico del secondo dopoguerra, ma che ancora contava masse di cittadini semianalfabeti”. Al Presidente Pertini veniva riconosciuto che nonostante fosse al centro della vita politica, era figura nitida, inusuale e fuori dagli schemi classici del potere. Pertini non era conformista, non brillava di gesti anonimi e difficilmente interpretabili, esplicitava valori chiari e per quei valori era preso ad esempio e amato. Amato perché era come il cittadino: ben visibile.

Se nella storia della Repubblica il linguaggio politico pare essere sempre stato malato di parole inutili, ai giorni attuali possiamo dichiarare il malato – la società tutta – in condizione  gravemente comatosa. Non è più una questione di schieramento politico: la sinistra non ha parole vere e schiette dalla seconda repubblica, ma la destra e il centro – se ancora vogliamo dividere l’arco elettorale in questo modo – rincara la dose con parole che inneggiano all’odio, solleticano le paure, parlando alla pancia del Paese, alzando il malessere e il malcontento, veleggiando su dichiarazione di intenti quasi mai sviscerati, frasi fatte, dette e ridette a pappagallo dai fan di politici che lo sono sempre meno, ma sempre più show man, prigionieri di un narcisismo imperante e un’anima malata di egocentrismo.

Neppure ai dibattiti televisivi i giornalisti si contrappongono in modo fermo e preciso alle imprecisioni del pensiero e del linguaggio. Non si comprende in verità il perché di tanto timore reverenziale (o di stessa approssimazione di coloro che ospitano nei salotti mediatici) verso una così bassa dialettica politica che nega costantemente l’evidenza dei fatti o dei dati, dichiarando esplicitamente in questo modo la negazione della verità. Sotto questo “ombrello” comunicativo ci siamo tutti, senza distinzione alcuna. Le notizie che fino a qualche anno fa erano arginate in un sedici, ventiquattro, trentadue pagine di stampa, ora rimbalzano ovunque in rete e questo bagaglio lo portiamo su un palmo di mano.

Dormiamo con uno smartphone accanto e, spesso, acceso. Controlliamo le notifiche mille volte al giorno come un pilota automatico. Non stacchiamo mai. Non riposiamo la mente che è semplicemente stanca, come uno stomaco che non digerisce e che noi continuiamo a riempire di cibo. Soffriamo di infobesità.

Aldo Carotenuto diceva che la sofferenza umana si lega al mondo di relazioni che viviamo, per questo motivo l’imputato non sono i media, non è il mezzo, ma siamo tutti noi. Noi che soffriamo del mal di linguaggio perché, come dice Rossana Rossanda, comunicare vuol dire comunicare con chi ha la tua stessa dignità.

E allora possiamo dire che il nostro parlare si fonda sulla nostra visione del mondo, sulle relazioni che viviamo, sui valori che ispirano la nostra vita, i nostri comportamenti. Il nostro modo di operare e stare nella società e per questo motivo che sia comunicazione politica, o d’impresa, che sia comunicazione per la pubblica amministrazione, per associazioni o per il privato, c’è un terreno che vale comunque la pena di essere nuovamente arato, ed è quello della consapevolezza di sé stessi, delle proprie emozioni, del rispetto, dell’educazione.

Disciplinarsi e essere disciplinati nel comunicare in tutte le sue forme è il cuore del cambiamento. Se vogliamo, da questo caos trovare nuovamente la strada, non possiamo pensare che scambi di idee e opinioni sui social modifichino in modo profondo le idee dei partecipanti al gioco, ma possiamo non cedere agli insulti, dare il buon esempio, stare lontani dalle guerriglie di parole, non tirarle al prossimo come sassi, con le uniche eccezioni di apporto di frammenti di buona comunicazione, attraverso poche parole e ben mirate che producano l’effetto dell’aforisma, spalanchino a sorpresa l’interlocutore lasciandolo poi solo, alla sua riflessione.

Altra partita, quella più seria, la possiamo giocare con le persone che ci stanno intorno non dando per scontato nulla, rimettendo l’ascolto al primo posto, il silenzio come suo compagno, la disponibilità a tollerare chi ne sa di meno di noi e chi ne sa di più di noi, resistendo a dar dell’ignorante ai primi ed evitando di sentirsi offesi per saperne di meno, dai secondi.

La riduzione dell’aspettative della qualità dei contenuti, ha significato la nostra personale responsabilità all’imbruttimento del mondo comunicativo (parole e immagini). Qualche anno fa, precisa Massimo Mantellini nel suo testo “Bassa Risoluzione”, il Parlamento italiano ha approvato una breve norma che dice questo:

E’ consentita la libertà di pubblicazione attraverso la rete Internet, a titolo gratuito, di immagini o musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni culturali e le attività è […] sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al comma precedente”. 

Si avvalla con la parola “degradato” la circolazione di immagini e musiche in bassa risoluzione, promuovendo implicitamente la riduzione delle aspettative.

Se la bellezza forse non salverà il mondo, di certo non lo farà lo sdoganamento del degrado, e che lo dica una legge dello Stato è sgradevole. Ho immaginato una norma che potrebbe suonare così, invece: “Non è consentito attraverso la rete Internet, a titolo gratuito o a pagamento, l’utilizzo di un lessico degradato, per uso didattico, scientifico, dialettico…”  e ho pensato che il passo successivo sarebbe potuto essere tornare ai vecchi salotti dove tablet, smartphone e pc non facevano parte del quadro estetico, ma è un sogno e come si è detto, indietro non si torna. Ed è questa “generazione a bassa risoluzione”, che condona il brutto e il degrado, che dobbiamo convincere. Lo si può fare partendo da noi stessi come detto e da quello che produciamo in termini di lessico per il mondo, ribellandoci a una grammatica distorta, ai congiuntivi sbagliati, alle virgole seminate come l’erba in un prato, alle mille emoticon che animano i testi digitali per nascondere profondità di pensiero o alleggerire la complessità, ai puntini seminati come il grano in un terreno sempre più arido alimentando una personalità digitale sempre più distaccata da quella reale. Reagendo e prendendo le distanze da quell’odio, da quelle offese che stanno nutrendo, avvelenandola, la nostra società.

La comunicazione politica – ma anche pubblica, pubblicitaria, sociale, etc.  – è comunicazione tra esseri umani. Da lì è necessario far ripartire il ragionamento.

Essere consapevoli dell’impatto emotivo che le nostre parole hanno sull’altro è la prima cautela che dovremmo aver ben presente. Se diamo dell’ignorante a qualcuno è chiara, vero, la reazione? E se non lo è immaginate di dare dell’ignorante a vostro figlio, e provate a comprendere (dal suo viso, dai suoi gesti, dal suo rispondervi ai messaggi i giorni successivi) come la possa prendere. E il risultato? Il risultato è una frustrazione, un inasprimento del rapporto.

La comunicazione politica non solo deve resistere facendo una inversione di rotta verso la verità, ma deve anche resistere negli atteggiamenti denigratori dell’altro: ne sono stati campioni Grillo e a tratti Renzi, e ne sono degni successori Salvini e Di Maio. Il buon professore educa, non mortifica l’allievo che sta imparando. Il buon professore sta un passo a lato lo studente, stimolando e sollecitando lo studio senza mettere in primo piano la sua di esperienza. Farlo tra pochi é più facile. Farlo in una classe con un rapporto 1 a 50 un po’ meno. Farlo sui social 1 a chissà quanti, ora è la sfida. E lo è ancora di più perché sulla rete non vediamo indicatori di malessere al nostro argomentare: non vediamo smorfie, spalle che si alzano, occhi che si arrabbiano, occhi che lacrimano, braccia chiuse.

Si può ripartire dalle piccole narrazioni, dalle singole parole, dal dare il buon esempio, dal contaminare il nostro micro mondo con valori che non si trovano più nella politica. Siamo orfani non solo di futuro ma anche di valori condivisi, di fiducia, consapevolezza, etica e responsabilità. Siamo orfani di immagini e parole belle, siamo orfani di bellezza e di sogni. Siamo orfani di amore.

Siamo stallati tra il vecchio mondo e uno nuovo ancora senza regole, stritolati senza la possibilità di tornare indietro e senza regole valoriali per il futuro. Ma possiamo fare una cosa nel frattempo: pensare al buono che c’è, e avere consapevolezza che siamo singoli che compongono un insieme, individui che compongono una società e che hanno un dovere: esprimere attraverso il pensiero, le parole e i gesti, valori che se non tendono al miglioramento del mondo – globale e locale – almeno non lo sporchino ulteriormente.

Ora non è più il tempo della velocità. Le ferite non si ricompongono con la fretta, ma si cicatrizzano con la lentezza. La fiducia si riconquista con la gentilezza, la chiarezza e il metodo, attraversando e accarezzando la passione e il rinnovato desiderio anche di piccole progettualità, ma rifinite dei minimi dettagli e che sappiano sorprenderci e sorprendere. La fiducia, che è essenziale alla qualità della vita, chiama l’affidabilità, la stabilità nel tempo e la correttezza. La fiducia è un patto tra le parti, retta su gratitudine, generosità e ascolto dell’altro. Un ascolto attivo, è vero e proprio ansiolitico naturale e moderatore dell’ego.

Questo è quanto, rispetto ai nostri tempi, un tempo che potremmo codificare citando Antonio Gramsci, di interregno. “La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. In questa terra di mezzo, dove tutto appare sfuggevole e volatile, respiriamo il clima funereo del passato ma ancora non assaporiamo e forse neppure vediamo l’embrione del nuovo. Il cielo è grigio. Eppure, è indubbio, che il nuovo è alle porte.

Ma non è mentendo su qualcosa che ancora non c’è, non si vede e non si tocca; non è neppure fingendo di aver soluzioni che ancora non si vedono che la nuova strada apparirà di fronte a noi. E’ piuttosto accettando le contraddizioni, le identità sgretolate, il rifiuto del diverso che capiamo l’interregno. Mettere in fila ordinata e disciplinata quello che non è bene pensare (che non sarebbe bene, pensare), dire e fare in questo grigio presente, sarebbe già il primo passo in attesa di passare da questa fase statica al dinamismo di un nuovo corso e di uscire, finalmente, da questo lungo periodo di interregno, a contemplare il cielo azzurro.

Bibliografia

  • McLuhan non abita più qui?, Alberto Contri, Bollati Boringhieri, 2017
  • Jung parla. Interviste ed incontri, Adelphi Edizioni, 1995
  • Scripta Volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità oggi, Paolo Iabichino, Codice Edizioni, 2017
  • Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità. Gianrico Carofiglio, Edizioni Gruppo Abele, 2018
  • Corso urgente di politica per gente decente. Juan Carlos Monedero, Feltrinelli, 2013
  • Con parole precise. Breviario di scrittura civile. Gianrico Carofiglio, Editore Laterza, 2015
  • Punto. Fermiamo il declino dell’Informazione. Paolo Pagliaro, Il Mulino, 2017
  • F come fiducia. Claudio Widmann, Cittadella Editrice, 2012
  • Perché siamo antipatici? La sinistra è il complesso dei migliori. Luca Ricolfi, Longanesi 2005
  • Ventotto domande per affrontare il futuro. Theodor Zeldin, Sellerio Editore, 2005
  • Comunicare in modo etico. Maria Teresa Giannelli, Raffaello Cortina Editore, 2006
  • Bassa Risoluzione. Massimo Mantellini, Giulio Einaudi Editore, 2018
  • L’arte di tacere. Abate Dinouart, Sellerio Editore 1989
  • Allegro ma non troppo. Carlo M. Cipolla, Il Mulino 1988
  • Il potere. Come usarlo con intelligenza. James Hilmann BUR 2003
  • Architettura timida. Piccola enciclopedia del dubbio. Marco Ermentini, Nardini Editore 2010
  • Adriano Olivetti. Il mondo che nasce. Dieci scritti per la cultura, la politica e la società. Comunità Editrice, 2013
  • Stato di crisi. Bauman/Bordoni. Einaudi, 2014